Messages from Gaza now = Messaggi da Gaza, ora
Hossam Madhoun, Gaza
Sesto giorno di guerra
2.22 di notte
Che coincidenza!
Come mai alla stessa ora del terzo giorno?
Alle 2.22 di notte mia moglie Abeer mi sta svegliando. Sono andato a letto all’una e 45.
“Che succede?”
“Alzati e vieni a vedere questo”
“Cosa?”
Mi mostra un messaggio sul suo cellulare.
L’ICRC, (la Commissione Internazionale della Croce Rossa) ha mandato al suo staff un messaggio che chiede a tutti di evacuare dal nord di Gaza e da Gaza City verso l’area centrale di Gaza, perché l’esercito israeliano sta pianificando di distruggere il nord.
Ogni residente dei due comuni del nord deve andarsene tra l’alba e le due del pomeriggio.
Come? Due comuni, di cinque comuni, saranno completamente distrutti, e un milione e centomila persone devono andarsene verso il centro e il sud?
Il messaggio è arrivato con una cartina di Gaza che indica le zone da evacuare.
Per via dei bombardamenti continui, molte famiglie del nostro edificio stanno passando la notte nel seminterrato, il palazzo ha sette piani e contiene 32 appartamenti.
Mi sono messo dei vestiti e sono sceso a vedere se qualcuno aveva ricevuto quel messaggio
Nel seminterrato, sopra un grande tappeto e qualche materasso ci sono otto uomini e tredici maschietti. Tutti dormono.
Sveglio uno dei vicini. Comincio a parlare con lui del messaggio. Il resto degli uomini si sveglia, qualcuno comincia a telefonare, e dopo qualche minuto il messaggio è confermato da molte persone. Lo staff dell’ONU ha ricevuto quello stesso messaggio.
Che fare?
Per più di 30 minuti tutti tornano nei loro appartamenti, poi ritornano nel seminterrato, arrivano altri vicini, e una domanda rimane sospesa nell’aria, senza risposta: che cosa avete deciso?
Sono le 5.30 di mattina, è ancora buio, ancora nessuna luce del giorno
Sono tornato a casa per consultarmi con Abeer. Lei lavora per un’organizzazione umanitaria internazionale, “Humanity and Inclusion”, Umanità e Inclusione. Ha già ricevuto lo stesso messaggio dalla sua ONG.
Dove andare? La seconda domanda rimane sospesa nell’aria senza risposta, che fare con la mia vecchia madre che è immobilizzata? E il nostro cane? E la nostra casa? Che succederà alla nostra casa? Abbiamo speso 25 anni delle nostre vite lavorando come cani per risparmiare abbastanza da avere una casa nostra.
Dalle 2.22 di notte fino alle 6.30 del mattino non siamo riusciti a ragionare in modo coerente.
Non ci fidiamo degli israeliani, fanno dei massacri, ne hanno già fatti, molti, ne siamo stati testimoni. Non possiamo rischiare di rimanere qui.
Le borse “da evacuazione” le avevamo già preparate dal primo giorno di guerra a Gaza. Decidiamo di andare nell’area centrale, al campo Nuseirat per rifugiarci dalla famiglia di Abeera. La famiglia di Abeera sta già ospitando la famiglia di sua sorella (due ragazze, padre e madre)
6.45 di mattina, mentre riempio l’auto con altra roba che potrebbe servirci sta chiamandoci Selma, mia figlia che studia in Libano per un Master. Ha saputo le notizie, era in preda al panico, piangeva. Abbiamo cercato di calmarla, nessuna parola poteva calmare chiunque, in questa situazione, finalmente ha capito che eravamo ancora vivi e partiamo.
Selma sta studiando per un diploma in Diritti Umani e Democrazia, studia IHL e IHRL (abbreviazioni maestose per significati molto profondi), IHRL significa Leggi Internazionali sui Diritti Umani, IHL è Leggi Umanitarie Internazionali.
Leggi che possono portare qualunque criminale che abbia perpetrato atti contro l’umanità a essere incriminato dalla Corte Criminale Internazionale.
Eppure, queste parolone non si usano per tutti. Si possono usare per Paesi deboli, piccoli, ma mai per Paesi dell’Occidente, e sicuramente non saranno mai usate per Israele, qualunque cosa faccia.
L’occupazione militare di altre nazioni è già un crimine contro l’umanità, ma che Israele stia occupando la Palestina da decenni non è mai stato messo in discussione come tale.
Israele ha commesso più di cinque guerre contro Gaza, uccidendo migliaia di persone, uomini, donne, bambini, distruggendo case, condominii, scuole, ospedali, e non è mai stato considerato responsabile.
Ora e oggi Israele sta praticando un genocidio e una pulizia etnica su un milione e centomila persone, privandole delle loro case sicure per affrontare l’ignoto, e tuttavia il mondo rimane a guardare, e per di più sta giustificando quel che Israele fa.
Ci sono più di 2500 persone uccise, includendo almeno 800 bambini e 400 donne, ferendo più di 8.000 persone, e distruggendo migliaia di abitazioni civili e altri edifici. E tuttavia le mani di Israele sono libere di penetrare ancora più profondamente nel nostro sangue.
55 anni ho vissuto su questa terra e sono stato testimone di null’altro che violenza, prigione, morte, sangue, bombe, bombardamenti aerei, embarghi, restrizione di movimenti, nessuna speranza, nessuna sicurezza, e perché? Perché tutto questo? Perché accidentalmente, geograficamente sono nato a Gaza. Che peccato? Che accusa? Nato a Gaza, dal primo respiro etichettato come terrorista dagli Israeliani, con la luce verde dall’Occidente perché facessero di noi quel che volevano.
6.55 di mattina, suona il cellulare, è il figlio di un amico la cui casa è stata molto danneggiata due giorni fa dopo che hanno bombardato un edificio vicino.
Rispondo alla chiamata: “Sì, Yousif, dimmi”.
Yousif: “Dobbiamo partire ora per Khan Younis. Siccome casa nostra è danneggiata, siamo andati nella ONG dove lavora mio padre. E ora ho troppa gente da spostare a Khan Younis. Hai posto in macchina per due o tre persone?”
So che gran parte della famiglia di Yousif è arrivata a casa sua da Khozaa – un villaggio a est di Khan Younis che è stato pesantemente bombardato nei primi due giorni di guerra.
Non potevo dare altra risposta che sì.
Ho parlato con Abeer, che aveva già riempito metà del sedile posteriore con la roba da portarci dietro, ma non possiamo lasciare la famiglia del mio amico senza aiuto, cominciamo a riorganizzare le nostre cose in ordine di priorità, e riportiamo metà della roba in casa.
7.25 di mattina, ci muoviamo verso la casa del mio amico, con la mia vecchia madre sul sedile anteriore e Abeer col cane su quello dietro, avendo liberato lo spazio per due altre persone.
La famiglia del mio amico stava ancora facendo i bagagli, sono 25 persone in due auto grandi, si stringono come possono nelle vetture. Abbiamo preso con noi un’altra vecchia signora e un giovane.
Grande frastuono di bombardamenti, non lontano ma non sappiamo dove.
Prima di partire, dobbiamo decidere che strada prendere: quale sarà la più sicura?
Gaza, 42 km di lunghezza e da 6 a 12 di larghezza, è connessa da nord a sud soltanto da due strade principali, quella lungo il mare che è esposta ai bombardamenti navali israeliani, e la strada Salahaddeen che è esposta ai bombardamenti dell’aeronautica e dell’artiglieria da est.
Non c’è molto tempo per fare grandi ragionamenti, le chances che siano sicure sono 50 a 50.
Cominciamo a guidare, la strada lungo il mare è vuota, poche auto la percorrono, alcuni guidano con riluttanza, altri guidano molto veloci. Di quando in quando vediamo edifici distrutti lungo questa strada del mare, con le macerie che bloccano la strada e più di una volta dobbiamo girarci intorno.
Guardando il mare, con le navi della Marina all’orizzonte, e le vecchie signore che pregano a voce alta, Abeer che cerca di parlare con loro per tenerle calme, e il cane intanto che è assolutamente silenzioso, come se sapesse che c’è qualcosa che non va.
Rumore di bombardamenti
Il nostro piano era di fermarci nell’area centrale, a soli 14 km, ma non possiamo lasciare i nostri amici, continuiamo a proseguire con loro fino a Khan Younis – 32 km. Arriviamo sani e salvi. Ci chiedono di rimanere con loro e di non tornare indietro perché potrebbe essere molto pericoloso. Era un’opzione, ma non c’era abbastanza posto, abbiamo chiesto in giro se era possibile noleggiare un appartamento, ma era troppo tardi – migliaia di famiglie arrivate prima di noi dalla parte orientale di Khan Younis e da molti altri posti avevano riempito ogni angolo di Khan Younis, incluse scuole, club sportivi, sale per matrimoni, ristoranti, sedi di ONG, qualunque spazio vuoto era pieno di nuovi rifugiati. Un’altra diaspora di Palestinesi, un’altra migrazione, un’altra catastrofe.
Rumore di bombardamenti da diverse direzioni.
Mia madre sta piangendo dal dolore, è nell’auto da un’ora e mezza, il suo corpo non riesce più a sopportarlo.
Iniziamo il viaggio di ritorno al campo di Nuseirat, dove vive la famiglia di mia moglie.
Andiamo verso nord e ora ci sono molte più auto che si muovono da nord a sud, auto piene di gente e di roba, e quasi ogni auto ha dei materassi legati sul tetto. Alcuni materassi e coperte volavano giù e a volte li vedevamo qua e là sulla strada.
Rumore di bombardamenti tutto il tempo.
9.42 di mattina, arriviamo a Nuseirat.
Ognuno comincia a svuotare la macchina, il cibo che avevamo preso dal nostro frigorifero l’abbiamo dovuto buttare via, carne e pollame erano marci, l’elettricità era stata tagliata da due giorni.
“Avete abbastanza gas per cuocere?” chiedo, sapendo che forse non ce n’era. “Ne abbiamo un po’”. “Avete abbastanza materassi?” “Ne abbiamo qualcuno”. “Avete acqua da bere a sufficienza”? “Ne abbiamo un po’”.
Il rumore dei bombardamenti non si ferma.
Quando la macchina è vuota, comincio a guidare, Abeer sta gridando “Cosa stai facendo? Dove vai?”
“Torno a casa a Gaza a prendere quello che abbiamo riportato in casa. Non possiamo sopravvivere senza” ho risposto e ho continuato a guidare ignorando le sue grida di obiezione.
Sapevo che tornare a Gaza poteva essere un tentativo suicida, gli Israeliani vogliono che ci muoviamo verso sud, fuori da Gaza, non verso nord, tornando a Gaza.
In meno di 12 minuti ero a casa, credo di aver guidato a 140 all’ora, non per coraggio ma per paura.
Ho riempito l’auto con tutto ciò con cui sono riuscito a riempirla, bottiglie d’acqua, materassi, coperte, due bombole di gas da cucina da 12 chili l’una, e persino i biscotti che erano davanti a me, credo senza volere, o pensando ai bambini che erano là.
Mentre scrivo, rumore di bombardamenti e di droni, tutto il tempo.
Ora è il secondo giorno a casa di mio suocero
Non so che fare, cerco di chiamare mia figlia in Libano di quando in quando, non c’è internet, non c’è l’elettricità, l’acqua sta scemando, forse durerà per i prossimi tre giorni usandola in modo razionato.
Giorno 9
9:52 om
Sul materasso, da solo al buio, alla luce del telefonino, col rischio di finire la batteria, nella speranza di riuscire a scrivere sul foglio quello che ho in testa, ecco, adesso sto riscrivendo quello che avevo già scritto sul foglio, perché ieri sono riuscito a caricare un po’ della batteria del computer alla vicina moschea che ha un pannello solare.
Siedo sul materasso cercando di ricordare cos’è successo in questo giorno strano.
Qualche bombardamento, e l’incessante suono del drone sopra la mia testa.
Alle 10 del sono andato al mercato di Nuseirat.
Il campo profughi di Nuseirat è al centro della Striscia di Gaza, dove mi sono rifugiato con mia moglie e mia madre, ottantatreenne e disabile, dopo aver lasciato la nostra casa di Gaza City, cercando un incerto riparo nella casa di famiglia di mia moglie.
Il campo ha una strada principale che la taglia al centro da Salahaddeen Road fino al lungomare.
Il mercato principale, situato a metà di questa strada, è lungo circa 200 metri. su entrambi i lati ci sono negozi, alimentari, supermercati, fruttivendoli, carne, pollo, prodotti domestici, negozi di vestiti, articoli di seconda mano. C’è tutto i questo mercato.
Il campo di Nuseirat ha 35,000 abitanti. Improvvisamente, nel giro di due giorni, ha accolto più di 100,000 persone che sono scappate dal nord e da Gaza City cercando riparo e sicurezza. La maggior parte si sono rifugiati nelle 13 scuole del campo, senza niente, se non quello che sono riusciti a portare con sé. Nessun supporto vitale, cibo, acqua, letti, coperte, materassi, tappeti. Niente. Nella speranza che UNRWA e le ONG internazionali si occupasse dei loro bisogni fondamentali.
Conosco il campo di Nuseirat, è sempre affollato. C’è solo questa strada, lunga 200 metri e larga 20.
Arrivo al mercato alle 10:20 del mattino. Sono solo 5 minuti in macchina dalla casa dei miei suoceri.
Cosa vedo? Questo non è il mercato che conosco! migliaia e migliaia di persone ovunque. Uomini, donne, bambine e bambini, anziani, madri coi loro figli, gente di tutte le età. Che fa avanti e indietro, su è giù per la strada, che entra ed esce dai negozi su entrambi i lati della strada nel tentativo di acquistare del pane o beni di prima necessità.
Osservando le facce delle persone, mi accorgo di qualcosa di strano, non normale. Le facce sono tutte cupe, gli uomini hanno la testa bassa, si capisce subito che sono distrutti, deboli, sconfitti, incapaci di provvedere all’incolumità dei propri figli – la prima cosa che ogni padre vorrebbe garantire alla propria famiglia. Camminando tra la gente si percepisce la paura, il panico, la disperazione; si sente l’oscurità attraverso cui si muovono anche se è giorno – è mattino, ma sembra buio, un buio che si è fatto materia, che si può toccare con mano.
Tutti si muovono velocemente, si potrebbe pensare che si stiano affrettando per compare cibo o provviste. Ma guardando più da vicino ci si rende conto che vanno di fretta per nascondere la propria vergogna e la propria paura. Una vergogna che non hanno il diritto di provare, ma che provano lo stesso. Vogliono nascondere la loro impotenza, le loro ansie, le loro paure, rabbia e frustrazione.
è il giorno del giudizio.
Hanno lasciato la propria casa senza sapere se vi potranno mai ritornare. Le storie dei loro padri e dei loro nonni che parlavano dell’espulsione e delle migrazioni imposte nel 1948 e del 1967 risuonano nella loro testa. Durante quel genocidio, Palestinesi hanno perso le loro case, le loro terre, e molti anche la vita. Ora vivono nel terrore che questo sia un nuovo genocidio. è forse questo il nostro destino di Palestinesi? Ogni tot, ci tocca di subire un nuovo genocidio???
Cerco di calmarmi. Perché ero venuto al mercato? Ah si, devo comprare del pane e qualcosa da mangiare. Dal panettiere c’è una fila di più di cento persone, ci vorranno ora per prendere il pane. Chiedo a mio cognato di mettersi in fila e vado al supermercato per fare il resto della spesa.
Il rumore di un bombardamento non lontano, molto forte. Ogni singola persona nel mercato, incluso me, rimane immobile per un istante, come se qualcuno avesse schiacciato il tasto pausa su un telecomando, per poi schiacciarlo di nuovo. La gente ricomincia a fare quello che stava facendo, nessuno si ferma per vedere dove sia il bombardamento, visto che c’è un bombardamento ogni 5 minuti. Centinaia di bombardamenti tutti i giorni, dappertutto, storie di case crollate in testa ai loro abitanti.
Siamo isolati dal mondo, senza internet, radio, TV, notizie. Siamo noi la notizia, ma non sappiamo niente di quello che succede. Abbiamo solo dei cellulari che si connettono con molta difficoltà dopo molti tentativi. Nessuno riesce a rimanere aggiornato su cosa stia succedendo.
Mentre faccio la spesa, mi suona il telefonino. è mia moglie Aree che urla:
“Torna subito a casa, nostra figlia Salma ha avuto un attacco di panico, non smette di piangere”
Salma, la nostra unica figlia, è in Libano.
Sono corso a casa con mio cognato senza riuscire a prendere il pane.
Sulla strada del ritorno abbiamo visto un’ambulanza e delle persone vicino ad una casa distrutta, vicino al cimitero che è a metà strada tra casa nostra ed il mercato, a 300 metri da entrambi.
Due corpi coperti giacevano sul ciglio della strada mentre dei paramedici stavano portando un altro corpo, deponendolo vicino agli altri due.
Arriviamo.
“Cosa è successo?” ho chiesto.
Abeer mi risponde: “ Salma ha sentito al telegiornale in Libano che c’è stato un bombardamento vicino al cimitero, e sa che casa nostra non è lontana, è andata nel panico, ha pensato che potessimo essere stati colpiti”.
Ho chiamato Salma. Dopo aver provato almeno tredici volte a prendere la linea, finalmente Salma mi ha risposto.
“Mia figlia adorata, stiamo bene, era lontano da qui”.
Ci ho messo 5 minuti a calmarla.
Io ed Abeer siamo in Nuseirat. Il cimitero era a 300 metri da lei e 300 metri da me, eppure nessuno dei due sapeva cosa vi fosse successo. Mia figlia a 270km di distanza in Libano, ha saputo quello che era successo prima di noi. Noi siamo all’oscuro di tutto.
Bene, per stanotte è abbastanza, La batteria del cellulare sta finendo e la schiena mi fa troppo male.
Un altro giorno
Hossam a Gaza
Come un giorno qualsiasi, sono andato al mercato. Non è più il mercato che conoscevo. Più della metà dei negozi, gli edifici su entrambi i lati della strada, erano distrutti o danneggiati. La strada è annerita, piena di polvere e macerie, vetri rotti, frammenti di porte e finestre, cavi elettrici e fili del telefono caduti sono stesi sull’asfalto. L’aqua è sporca e mischiata agli scarichi perché le tubature sottoterra sono state danneggiate dai bombardamenti. Ci sono mucchi di immondizia ovunque, nessuno la ritira, non ci sono operai per riparare le tubature danneggiate.
Davanti al panettiere non c’è una fila vera e propria, la gente è raccolta in una grande folla che si urla addosso, litigando sull’ordine per ricevere il pane. Alcuni uomini ed alcune donne stanno litigando, picchiandosi, altri cercano di calmare la folla senza successo. Il panettiere chiude la porta del negozio, rendendo la gente ancora più arrabbiata.
Davanti alla scuola, un’altra rissa e altre urla. La gente ha perso la pazienza, si arrabbia per il minimo motivo, oppure senza alcun motivo. Chi può biasimarli? Senz’acqua, senza cibo, bagni, intimità, dignità, speranza. Ci sono solo disperazione e paura.
Continuo a camminare verso Salahaddeeen Street, senza un vero motivo.
Alcuni uomini trasportano sacchi di farina da 35kg. Chiedo a uno di loro dove li abbiano presi.
“C’è un mulino sulla 20ma strada”
“Ne trovo ancora? O credete sia finita?”
“Credo ce ne sia ancora”
Cammino senza meta. Non abbiamo gas da tre giorni, abbiamo cominciato a cucinare il cibo e il pane direttamente su un fuoco acceso.
Mi ricordo di un collega che vive sulla 20ma strada. Lo chiamo per dirgli che sono nelle vicinanze. Mi dice di proseguire fino a casa sua e che mi raggiungerà in un quarto d’ora, adesso è al supermercato.
Passo davanti al mulino e compro della farina per il pane. La trasporto per circa 70 metri fino a casa sua. Suo padre mi conosce, è molto gentile, mi accoglie offrendomi del caffè e dei biscotti. Porta fuori due sedie di plastica e ci sediamo davanti a casa sua. Chiacchieriamo, più che altro della guerra e delle difficoltà per la gente di assicurarsi il minimo indispensabile. Parliamo delle persone che conosciamo che sono state uccise, o ferite, o che hanno perduto un parente oppure la casa.
Dopo 15 minuti arriva il mio collega. Ha l’aria sconvolta, è coperto di sabbia e polvere. Era appena uscito dal supermercato quando è stato bombardato da un aereo israeliano. Lui era scampato, ma aveva visto molti morti e feriti attorno. Non si era fermato per paura che ci fosse un altro bombardamento. Era successo spesso prima che la gente accorresse verso i feriti e che nello stesso punto cadesse un’altra bomba, uccidendo e ferendo altre persone.
Passano 15 minuti perché si calmi e riesca a parlare e respirare normalmente. Sento che devo andarmene. Chiedo se possa lasciare la farina da loro fin quando non trovo un modo per portarla a casa di mio suocero; sono più di 3km e non credo di riuscire a portare 35kg a piedi.
Abeer e sua sorella mi stavano aspettando a casa di suo cugino, che vive in centro al campo profughi vicino al mercato principale. Lei aveva appena finito di lavorare alla scuola/rifugio; aveva cambiato le fasciature dei feriti, aiutato una donna a partorire, distribuito dei beni di prima necessità. Suo cugino sta ospitando due famiglie sfollate di amici e colleghi della centrale energetica di Gaza. Quando sono arrivato c’erano urla e strilli. Le due famiglie stavano litigando per via di un diverbio tra i bambini.
Abeer e sua sorella sono uscite ed abbiamo camminato fino a casa.
Arrivati a casa, mi madre mi dice che aveva provato a chiamarmi molte volte. Voleva andare al bagno. Nessuno poteva portarla dal letto al bagno. Non riusciva più a tenerla e quindi l’aveva fatta nel letto. Ero molto dispiaciuto. L’ho portata al bagno e pulita con acqua fredda. Mi ha urlato e maledetto, non si rendeva conto che l’acqua calda era un lusso che non è più disponibile. Ero arrabbiato, ma mi sono trattenuto e non ho reagito. Ho finito di lavarla, rivestita con vestiti puliti, riportata a letto e le ho portato del cibo e le sue medicine. Ritorno in bagno per lavare i vestiti, senza elettricità e senza lavatrice, quindi lavo a mano in un secchio di plastica. Devo prendere l’acqua dalla tanica al primo piano, quindi faccio su e giù dal secondo piano molte volte.
Mentre sto seduto per terra a lavare i vestiti di mia madre cercando di controllare la rabbia e la frustrazione, mi viene in mente la mia infanzia. Non c’era corrente elettrica in città quando ero piccolo, e di certo non c’erano le lavatrici. Eravamo 5 fratelli e 4 sorelle più mio padre e mia madre.
Mia madre al tempo faceva il bucato per tutta la famiglia, e non solo quello. Cucinava, puliva, ci coccolava, e molto altro. Mi sono sentito in colpa, ma non ero più arrabbiato o frustato. Solo esausto.
Ho lavato il mio corpo ed i miei vestiti, poi li ho appesi ad asciugare. Il pranzo era pronto. Abbiamo mangiato da basso. Poi sono tornato in camera mia.
Dimenticavo, oggi al mercato ho comprato delle cuffie da usare con il telefonino così da poter ascoltare la radio sulla app. Le radio non vanno sul telefonino senza le cuffie. Non lo sapevo.
Steso sul materasso, ho connesso le cuffie e aperto la app della radio. Spostandomi tra i canali, sento solo notizie di guerra, la conta dei morti e feriti, analisti politici con voci profonde da ben informati, inviati che urlano per farsi sentire. Non è questo di cui ho bisogno. Mi sposto su altri canali e all’improvviso… musica. Conosco questo canale, è un canale che trasmette musica classica. Solo musica, e solo classica. Era la Sinfonia numero 15 di Mozart, seguita da un’altra sinfonia diretta da Yuri Torchinsky. Mi sono sdraiato, ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato. Un riposo meritato.
Messaggi da Gaza, ora (08/11/2023)
SUONI
Hossam, Gaza
Sdraiato sul materasso, buio completo tranne che per la fioca luce di una povera, piccola candela.
Chiudendo gli occhi, sperando di dormire, non funziona. Due giorni e due notti, non un solo minuto di sonno.
È stupefacente come i sensi umani diventino più forti e più sensibili quando se ne perde uno, come la gente che non ha la vista ma ha un udito più acuto. Questo è quello che mi accade mentre chiudo gli occhi.
Durante il giorno, un sacco di rumore, un sacco di suoni, suoni misti di persone, chiacchiere, parole, grida, bombardamenti, esplosioni, droni, aerei militari che fanno a pezzi il cielo. Tutto mescolato, così non riesco a cogliere nessun suono.
Nel buio, nel silenzio che si suppone completo, e mentre sono sdraiato a occhi chiusi, ho iniziato a concentrarmi di più sui suoni che mi circondano, il suono di un foglio di plastica che copre la finestra ormai priva del suo vetro, e che si muove nella brezza notturna, il respiro e i sospiri di mia madre vicino a me, i battiti del mio cuore, gli stridii degli scarafaggi dei campi, il rumore di un uccello che tarda a tornare al nido, o che esce dal nido per colpa del rumore di un’esplosione, il bebè di un vicino che piange nella casa accanto e sua madre che lo culla, il fruscìo dei rami degli alberi, che si muovono appena, il verso di un gufo che viene di lontano, i cani di strada che impazziscono e abbaiano quando cadono le bombe, il chiasso di gatti che si azzuffano.
Tutti questi suoni significano vita, speranza, significano che domani verrà nonostante tutto.
Altri suoni arrivano, sopra ogni altro suono, facendo svanire tutti gli altri suoni, occupando l’aria e l’atmosfera, invadendo il silenzio per dire che sta arrivando la morte. Il suono del drone militare, l’unico suono che gli assomiglia è quello del rasoio elettrico moltiplicato un centinaio di volte, che riempie lo spazio con il suo fragore fastidioso, che nessuno può ignorare neppure per un attimo. Ogni creatura vivente è obbligata a udirlo, in qualunque momento. Gli esseri umani, gli animali, gli uccelli, gli alberi e persino le pietre potrebbero spezzarsi per colpa della follia che causa quel rumore. Mi ricorda una sola cosa, la lenta uccisione per tortura praticata nel Medioevo. Gli aeroplani militari che passano – gli F-15, F-16, F-32, gli F-non-so-che, che trafiggono il cielo così come un coltello passa attraverso un pezzo di burro, portando morte ovunque vadano.
Il suono dell’artiglieria che bombarda, bum. Ogni carica fa tre suoni, l’eco del suono è ripetuta: bum, bum, bum, comincia forte e riecheggia tre volte.
Il suono dei missili che colpiscono, molto forte e molto acuto. Se riesci a udirlo, allora sei vivo. Se è così veloce che ti colpisce, non lo sentirai. Chiunque a Gaza sente il suono di un missile sa immediatamente che ha colpito qualcun altro, lasciandosi dietro morte e distruzione. Lo sappiamo tutti per esperienza, l’abbiamo imparato nel modo più duro, attraverso le molte guerre mosse contro Gaza.
Stare seduto al buio, cercando di ignorare i suoni rumorosi della morte e di concentrarsi sui piccoli suoni della vita. Non è facile, ma questo è il mio modo di passare la notte, sperando di vincere l’insonnia per qualche ora.